Thursday, 17 December 2009


Credo fosse a ridosso del 2000.
Le torri non erano ancora crollate e i concerti potevano essere affrontati senza accendere mutui sulla casa. Firenze era freddissima quella sera e, per una consuetudine che ancora a distanza di anni fatico a spiegarmi, tutti e quattro ci eravamo presentati davanti al locale con sei ore d’anticipo. Non era arrivato nemmeno il proprietario e noi fissavamo infreddoliti e con le mani in tasca le locandine di questo gruppo rock finlandese. O forse era svedese. Poco importa.
Freddo comunque. Così freddo che nessuno parlava. Così freddo che anche lamentarsi poteva rivelarsi un inutile spreco di calore corporeo. Ci scambiavamo semplici sguardi di disapprovazione, maledicendoci e smadonnando per il nostro essere così idioti. Successe quindi che, dopo una buona ora d’attesa in cui nessuno si era palesato per aprirci, ci avventurammo alla ricerca di un supermercato per comprare qualcosa da bere; era un giovedì inutile di febbraio e la lancetta piccola non aveva ancora toccato il cinque.
Nelle vicinanze di Piazza del Duomo, in una via lunghissima con dei bar dove anche solo pensare di chiedere un caffè costava come un caffè in un bar di periferia, trovammo un minimarket piccolissimo gestito da un arabo grassoccio e barbutissimo. Una sorta di incrocio tra Bud Spencer e Lino Banfi, ma con la carnagione olivastra e la pelle rugosa di un Clint Eastwood dei tempi d’oro. Percorremmo con lo sguardo il piccolo scaffale degli alcolici per tutta la sua lunghezza ridicola, guardando i prezzi e leggendoli ad alta voce alternativamente con le marche e le etichette. Le finanze erano quelle che erano e bisognava ricordare che, oltre al biglietto del concerto, occorreva pagarsi anche il biglietto per tornare a Pisa a fine concerto. Da squallidi universitari quali eravamo dovevamo tener conto di tutti questi input ed output prima di prendere una decisione che avrebbe potuto potenzialmente intaccare le nostre già misere finanze. Eravamo comunque troppo orgogliosi per prendere un vinaccio in cartone: una cosa del genere avrebbe certificato il nostro essere davvero degli alcolizzati e questo, ad un passo dai ventuno anni, non andava bene a nessuno.
Stavamo per gettare la spugna viste le randellate finanziarie ingestibili anche con una colletta in quattro. Eppure, nel preciso istante in cui stavamo per andar via, una bottiglia di rosso fece capolino dallo scaffale più basso. Il cartellino giallo del prezzo aveva impresso qualcosa di molto simile ai tre euro al cambio. Un qualcosa che fece sussultare tutti di gioia. I tempi erano ancora acerbi e tutti ci accontentavamo di bere anche in lunghi abbeveratoi di legno per equini a pelo lungo, scegliendo birre dai nomi impronunciabili fermentate in qualche cesso di Calcutta o vini, è questo il caso, dai nomi ridicoli ed ammiccanti.
L’etichetta della bottiglia recitava semplicemente “Vino Rosso”. La marca era “Freschello”. All’epoca non avevo ancora elaborato la mia personale teoria secondo cui se nell’etichetta è presente un vezzeggiativo (terminante preferibilmente in –ello) allora il vino fa sicuramente cagare. Non feci quindi caso al nome che anzi, insieme al prezzo, coccolò subito tutti e quattro.
Ne comprammo due bottiglie, che bevemmo prima, durante e dopo l’esibizione della band, facendole anche girare tra compagnie conosciute sul momento. Quello che ne seguì diverse ore dopo fu un mal di testa epocale come se ci avessero immerso in una tinozza tre per tre di mosto selvatico in piena fermentazione, lingue felpate e un'alitosi che avrebbe fatto invidia ai cannibali del Congo dopo il compleanno del capo tribù. La domanda, anche a distanza di anni, resta sempre la stessa: ma cosa c’era in quelle bottiglie?
Son passati molti anni da allora e solo pochi mesi fa, cercando tutt’altro per la rete, mi sono imbattuto in questa pagina:

http://blogs.sfweekly.com/foodie/2009/03/cheap_wines_that_dont_suck_fre.php

Questo mi ha fatto arrivare a due possibili conclusioni. O davvero non ricordo il sapore di quel vino o, esattamente come io non capisco una mazza di rugby, gli americani non debbono essere poi delle cime in fatto di vini. La vera sorpresa, però, è stata notare come i prodotti più infimi possano avere le campagne pubblicitarie migliori…

http://www.adpunch.org/entry/freschello-happily-married-to-everything/

“Freschello, happily wedded to everything” : potrei anche arrivare a ricredermi… ma non me la sento ancora di rischiare.

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